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LEONARDO ANGELUCCI – Intervista al cantautore romano

LEONARDO ANGELUCCI – Intervista al cantautore romano

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Cantautore, chitarrista, produttore e organizzatore di eventi, Leonardo Angelucci non rimane mai con le mani in mano e come se non bastasse è anche appassionato di rock progressivo e ha una band, i Lateral Blast, dove dà sfogo a questo suo amore per il prog. “Questo Frastuono Immenso” è il suo album e noi ne abbiamo parlato con lui in quest’intervista.
 
Ciao Leonardo e benvenuto tra le pagine di Tuttorock. Presentati ai nostri lettori, parlami un po’ di te e delle tue influenze musicali.
Ciao a tutti, sono Leonardo Angelucci, cantautore, chitarrista, produttore e organizzatore di eventi della provincia di Roma. Nato nella capitale nel ‘91, sin da piccolo ho avuto intorno a me buona musica, grazie alla chitarra e ai vinili di mio padre, ai miei zii musicisti e allo stereo in macchina. Queste cose mi hanno ovviamente indirizzato verso lo studio di uno strumento: la chitarra. Successivamente mi sono appassionato anche alla scrittura, come espressione della mia vulcanica creatività. Da lì, le prime esperienze con le band, i primi progetti discografici, i concerti e i riconoscimenti. Due anni e mezzo fa, ho deciso di intraprendere il mio primo progetto solista come cantautore, a partire dalla pubblicazione di un ep di cinque brani intitolato “Contemporaneamente”. A questo sono seguiti concerti, feedback incoraggianti e il mio primo disco, “Questo frastuono immenso”. Ascoltandolo si sentono gran parte delle mie influenze musicali, che vanno dal cantautorato classico (Faber, Battisti, Rino Gaetano), a quello più contemporaneo, dal rock e blues, come ogni bravo chitarrista, fino al folk e alla world music.
 
Come nascono i brani di “Questo Frastuono Immenso”?
Sono pezzi di vita, di quotidianità, sono i miei pensieri, le mie storie e le mie emozioni. Descrivono un periodo della mia vita caratterizzato da sensazioni altalenanti, andando da un amore iniziato a una storia finita, dalla satira sociale al nudo integrale della mia sensibilità.
 
Descrivilo musicalmente.
E’ un disco molto eclettico, variopinto, non annoia mai all’ascolto. Almeno spero. E’ molto suonato, come piace a me, senza fronzoli e con una bella carica alimentata dalla mia fantastica band e dalla produzione. Si passa dai singoli più pop a tinte black e soul, dalle chitarre rock e i ritmi serrati tendenti al punk alla world music e all’elettronica. Qualcuno mi ha detto che potrebbe risultare confusionario, al primo ascolto, ma questa è proprio la mia natura. Vengo dal prog… capirete che non mi piacciono le cose semplici e banali.
 
Di cosa parlano i testi?
Ci sono una buona parte di testi d’amore, in varie fasi della sua evoluzione. C’è la satira nei confronti di una società fatiscente e consumista. C’è la mia angoscia esistenziale, il senso di perdizione generazionale, che non ci fa mai rallentare, in questa “ipersocietà”. C’è la mia penna lisergica e il mio flusso di coscienza. Ci sono io, perché la sincerità arriva abbastanza chiaramente, quando ci si abbandona all’ascolto.
 
Quale è il brano che più ti rappresenta e perché?
Forse l’ultimo, quello che chiude il disco, “Un minuto”. Lì il pathos raggiunge il suo climax: si chiude con un finale ripetuto ossessivamente, un monito: “Quando finirai di rateizzare il tempo e passerai due ore ad abbracciare il mare? O ti lascerai perdere dentro un minuto, dimenticando questo frastuono immenso?”
 
Perché hai scritto un brano in lingua sarda?
Perchè ho vissuto una bellissima esperienza in Sardegna, a Cabras, a casa di un mio caro amico, in un posto meraviglioso, pieno di paesaggi mozzafiato e storia. Quando viaggio ho spesso con me la chitarra, così ho scritto questo brano, traducendolo da subito in lingua sarda grazie all’aiuto del babbo di questo mio amico. Più tardi, il mio produttore, Manuele Fusaroli, ha avuto l’idea della collaborazione con Bujumannu, che mi ha ulteriormente aiutato nella revisione del testo. Ho lottato parecchio perché ci fosse nel disco, perché è un bel pezzo e perché adoro le altre lingue, i dialetti, il folklore e le tradizioni dei posti in cui viaggio. La lingua sarda è molto musicale, anche Faber l’ha utilizzata. Forse anche la sua influenza mi ha portato a realizzarlo. Penso sia anche un audace atto di autodeterminazione, tipo “faccio un po’ quello che voglio io della mia arte e non seguo per forza le mode del momento”.
 
Hai avuto esperienze con Daniele Coccia del Muro Del Canto, come è nata questa collaborazione?
Ci siamo conosciuti perchè ho organizzato un concerto del Muro all’interno del mio festival “Castello di C’Arte”.  Siamo rimasti fino alle cinque di mattina a bere e suonare, intorno a un tavolo. Siamo rimasti poi in contatto e abbiamo collaborato dapprima con i Lateral Blast, la mia band prog-rock, poi nel suo disco solista “Il cielo di sotto”: l’ho accompagnato in tour e ho collaborato alla scrittura di un paio di brani. Insomma, quelle strane congiunzioni astrali che chiamiamo coincidenze, ma che spesso creiamo elettromagneticamente noi.
 
C’è un po’ di tutto in questo nel tuo album, ma quale è il vero Leonardo Angelucci?
Esattamente questo, quello simpatico e sfacciato, quello cupo e introspettivo, quello innamorato e melenso, quello prolisso e perfezionista. Ho sempre avuto come prerogativa della mia arte il cambiamento, l’evoluzione, la progressione. Poi se un giorno anche io diventerò miliardario con un riff di chitarra o dei cliché generici magari ci ripenso. Per ora mi accetto così.
 
Fai parte anche dei Lateral Blast, una band che suona rock progressivo, sei un appassionato di musica prog?
Assolutamente sì e sono al lavoro coi ragazzi sul terzo disco, che probabilmente sarà un concept album. Vedremo. Anche nel mio disco sono andato a cercare qualcosa che permettesse l’anarchia musicale che ha sempre caratterizzato la penna dei Lateral. Con loro mi sfogo per bene anche a livello musicale.
 
Concludi l’intervista come vuoi, un invito ad entrare nel tuo mondo musicale.
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FABIO LOFFREDO

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