“Il ritmo ci accomuna tutti” – Intervista a Vito Cardellicchio

Cosa ne pensi del fatto che negli ultimi dieci anni sia sempre più diffuso l’inserimento di tribalismi nella musica elettronica, scavando nel repertorio dell’afro-beat, come a volerla scaldare in qualche modo?

Io credo che questo discorso ci sia sempre stato in qualche maniera. Il ritmo è quello che mette d’accordo tutti. Il ritmo è una cosa che indipendentemente dal genere o dalla competenza musicale arriva emozionalmente e fisicamente a chiunque, facendo da passpartout per pubblici diversi. In situazioni di pubblico eterogeneo infatti si nota come la componente del ritmo sia quella che accomuna tutti quanti, dall’amante del jazz old school, al rockettaro. Per quanto riguarda il connubio con l’elettronica io già anni fa, quando ero più giovane, suonavo molto con l’afro-house, quindi al fianco dei dj nelle discoteche. Sono stato dieci anni al Fortino di Sperlonga come percussionista resident, sono stato a La Bussola a San Felice Circeo, e altri ancora in giro per l’Italia, sempre durante l’estate. oltre a tutte le altre situazioni di live che sicuramente mi interessavano di più. Però questo stare accanto ai dj mi ha fatto vedere il concetto della musica elettronica allargata, senza dover rispettare una particolare struttura, che può essere la canzone nel pop, o lo standard per quanto riguarda il jazz tradizionale. La musica elettronica abbatte queste barriere e si dirama in mille direzioni. C’è un discorso sulle mirco-iterazioni iterative, ossia ripetere delle cose in maniera ipnotica con delle piccole variazioni, con strumenti e strumentazioni che entrano e escono. Ecco questa idea di musica elettronica mi è sempre piaciuta, e funziona proprio perchè è fuori dagli schemi di genere.

Quali sono le culture ritmiche che ti hanno affascinato di più, oltre a quella italiana?

Per me il riferimento più forte è quella africana, che personalmente è anche quella che mi piace di più. Io insegno musica africana, musica cubana, e musica araba. Però per quello che riguarda il mio approccio e il mio repertorio, il linguaggio della musica africana e l’utilizzo di strumenti africani lo ritengo più interessante. Infatti domani vedrai come djembe, kalimba, tamburo parlante e altri strumenti africani avranno una centralità importante nel live.

Su TuttoRock c’è una rubrica, che curo personalmente, dal titolo “ConsigliPerGliAscolti”, dove vengono consigliati ai lettori dei dischi magari poco conosciuti ma di altissimo livello, o semplicemente grandi classici, ma visti sotto un’ottica nuova. Tu hai qualche disco, magari in linea con le tue influenze, che senti di consigliare a chi leggerà questa intervista?

Allora se vogliamo andarci giù pesante dico Nanà Vasconcelos, che conobbi personalmente perchè collaborò con Pino Daniele, e lo incontrai alla stazione ferroviaria di Formia. Lui aspettava il treno portandosi dietro il berimbau (grande strumento a corda diffusissimo in Brasile ndr.) e la polizia ferroviaria lo voleva arrestare. Li bloccai subito spiegando loro che lui suonava con Pino. Quindi sì mi sento di consigliare l’ascolto di Nanà Vasconcelos, più precisamente della sua trilogia dal titolo “Codona”, tre dischi eccezionali che usano le percussioni al di là di una particolare tradizione etnica. E questa è la filosofia che apprezzo di più. Un maestro di questa filosofia trasversale, e che lavora con solo percussioni, registrando in sovraincisione, è Guem, un artista algerino che consiglio caldamente di scoprire per chi non lo conoscesse.
Grazie Vito, è stato un vero piacere!

Grazie a te!

Intervista a cura di Francesco Vaccaro

Fotografie a cura di Paola D’Urso