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AFTERHOURS – Intervista a Manuel Agnelli & Rodrigo D’Erasmo per la present …

AFTERHOURS – Intervista a Manuel Agnelli & Rodrigo D’Erasmo per la present …

Nel 1999 ti facesti fotografare nudo con una corona di spine per la copertina de Il Mucchio Selvaggio, oggi lo rifaresti?
Se qualcosa arriva dall’estero noi la prendiamo come una figata pazzesca, il coraggio di farlo l’hanno avuta altrove altri tanti anni fa. Ho visto delle interviste di Bowie del ’72-’74, lo prendevano in giro per gli abiti, il colore dei capelli, però all’estero hanno anche più coraggio di affrontare il grottesco, qui ti massacrano. Ci potrebbe volere meno coraggio adesso che ho 30 anni di storia e questo mi legittima, che allora che non ero nessuno.
 
Potremmo forse dire che se una cosa la fa Bowie è arte, se la fa Manuel è altro.
Fare cose ad un certo livello implica che ci sia una qualità di base, le cose non sono giuste o sbagliate, riescono o non riescono. Bowie era un genio poteva fare quello che voleva, è vero che non tutti possono fare tutto. La mia non è una lamentela generica, è anche giusto che ci sia spirito critico da parte della gente, diciamo che noi ce l’abbiamo forse un poco troppo accentuato, questo non perché siamo più critici, ma per una certa vanità del pubblico. C’è una voglia di partecipare che comporta molta vanità per il desiderio di partecipare allo spettacolo.
 
Cosa è rimasto del rock oggi, cosa è rock?
Non tocca a me dirlo, per come lo conosco io non era più rivoluzione già negli anni ’80, era attitudine e sociale, provocazione sicuramente, oggi mi pare che non sia così e ci sia una sorta di clichè universale che va a comporre un progetto rock. L’unica cosa che resta è il talento, niente di nuovo, ma sensato, in alcuni anche il sensato con cose nuove. Il periodo d’oro è stato quando tutte le componenti si combinavano, cose che succedono ogni 1000 anni.
 
30 anni di Afterhours, allora l’avresti pensato di trovarti qui alla Universal a ‘celebrare’ questo traguardo?
Come fattorino che portava il caffè certamente! Scherzi a parte, no, non l’avrei mai pensato. Io, e chi ha suonato con me lo sa, sono partito da subito con l’idea ed il puntiglio di vivere di musica. Che non vuole dire diventare un professionista, ma fare musica per vivere oltre che vivere per fare musica. Al tempo sembrava possibile farlo in tante maniere, magari non abbracciando le case discografiche e men che meno i media. Non lo immaginavo perché ho avuto molto di più di quello che immaginavo, quindi è andata molto, ma molto bene. Penso che la quantità di amore, di determinazione, di passione per queste cose sia stata tanta, per cui senza peccare di falsa modestia, ce la siamo guadagnata. Poi ci sono tanti progetti validi che non arrivano al successo, per cui comunque la componente fortuna ci vuole sempre.
 
30 anni fa non c’erano i social ad esempio, andavate a fare esperienza sui palchi, come hai visto cambiare il mondo della musica?
Andare per palchi era una figata! Per il resto a me non piace, non ho social se no nFacebook, ed a volte mi piace anche, vedo battute che farei anche io. In generale non li ho e non mi piace seguirli, ma penso che ogni generazione abbia il suo modo.
 
Ne avevamo già parlato assieme del fatto che voi fate musica particolare, difficile per così dire, nel fruire di oggi fatto di streaming e smartphone se una canzone non piace subito si passa alla successiva, una sorta di consumismo vorace che porta al fatto che la musica deve essere facile e piacere subito, questo può essere un problema per voi e che pensiero te ne sei fatto?
Sì è vero, ma quando inventarono il treno prima andavano a cavallo, a quel punto hanno iniziato ad andare in treno perché andare a cavallo era una cosa troppo lenta. Succede così da sempre, l’innovazione tecnologica cambia il modo di fare le cose, le piattaforme. Quello che mi dispiace molto è che si sia perso il filo di comunicazione tra la mia generazione e quella successiva. I mezzi che abbiamo adesso sono internet, è tutto più compresso e veloce, meno analitico, meno approfondito, in questo modo si perdono delle esperienze e si fanno gli stessi errori. Non il cambiare dei modi di comunicazione, il problema non è che sono diventato vecchio, questo non mi dispiace più di tanto, mi dispiace che si sia perso il percorso che ho fatto. Invecchi senza lasciare niente. Questa mattonella (nda: il libro) è una pietra miliare, non tombale, miliare (risate).
 
Altro cambiamento dei tempi, è che 30 anni fa andavi sui palchi poi diventavi famoso e finivi in tv, ora il percorso pare invertito. Diventi famoso in tv nei talent poi vai a fare i concerti.
Anche prima succedeva così,  solo che prima c’erano più strade. Ricordo i Monkees, che avevano fatto piccole serie televisive ed erano esplosi in questa maniera. Altri fenomeni venivano lanciati dalle radio, i primi Beatles erano quasi una boy band, non erano Robert Johnson, era comunque roba per i ragazzi. La fruizione non è cambiata più di tanto, negli anni ’50 avevi il singolo nel juke-box, suono supermediosetto che era magari una onehitwonder, siamo tornati lì, adesso è la canzone sul pc o lo smartphone, gli LP non si fanno quasi più, canzoni di artisti che spesso poi spariscono, in fondo non è cambiato molto.
 
Come nasce la collaborazione con Carmen Consoli?
Perché è uno dei pochissimi personaggi che ha iniziato più o meno nel nostro periodo con un percorso simile, se non musicalmente, al nostro. Quando abbiamo pensato ad un possibile compagno di viaggio il primo nome che ci è venuto in mente è stato Daniele Silvestri, che comunque nel singolo c’è, nel coro finale fa un cameo. Ma cantare Bianca con Daniele pareva un poco forzato, allora abbiamo pensato a Carmen, con cui ci conosciamo da sempre pur non avendo mai lavorato assieme. C’era la voglia di entrambi di fare una cosa assieme, lei ha un imprinting forte molto forte così come io ce l’ho cantautorale, questo ci legava, e la sua presenza ha dato un tono di fresca eleganza al tutto.
 
Nel suono degli Afterhours, a mio parere, riveste un ruolo fondamentale Rodrigo con il suo violino, io lo reputo uno dei migliori nel campo in Italia, ma non è uno strumento tipicamente rock. Avresti mai pensato di ritrovarti a suonare in un gruppo rock?
Rodrigo: Io ha avuto la fortuna di entrare in solco già ‘arato’ prima di me da Dario, da Davide Rossi, quindi mi sono innestato in un suono che era già pronto pur portando la mia particolarità. Credo che il violino possa inserirsi bene, tra il noise ed il melodico. La cosa più rock che avevo affrontato in precedenza era stata quella con Cesare Basile.
 
In un periodo in cui il suono si presenta molto simile e conforme il tuo violino penso dia una nota di colore particolare che arricchisce in maniera stabile il sound.
Manuel: anche questa cosa del conformismo penso sia più una cosa da media che reale, se guardate in giro nel mondo ci sono tantissime cose, dalla Lapponia al Nord-Africa. Stefano Pilia che è il nostro chitarrista suona con Rokia Traoré che è una musicista del Mali, io stesso ho fatto 2 tour con Damo Suzuki. Ma adesso ci sono tantissime musiche in giro per il mondo, in realtà e nei media che passa sempre la stessa, ci sono moltissime energie e contaminazioni che però non passano per le radio ed i media. Il momento è particolarmente creativo ed interessante, ma poche cose interessanti passano.
 
Vedi gruppi che fra 30 anni potranno essere qui a raccontare la loro storia come voi?
Noi (risate)! Fra i ragazzini vedo nascere tante cose interessanti che portano avanti senza compromessi, sono convinto che la vita sia fatta di corsi e ricorsi, per cui si vada oltre andare in tv per 15 minuti di gloria piuttosto che fare il giudice di X-Factor. Penso si tornerà alla bio-comunicazione, all’incontrarci, al comunicare direttamente tra persone come al concerto di Nick Cave dove lui toccava continuamente le persone. So come è andare nei club, buttarsi in mezzo alla gente, scambiarsi esperienze, passata la sbornia digitale sono convinto ci sarà un rientro.
 
Gli emergenti fanno fatica a venire alla luce, sembra che la via televisiva sia l’unica percorribile, ci sono strade alternative ai metodi classici?
La via alternativa è costruirsela la via, quello che non siamo riusciti noi a passare alle nuove generazioni è quello che prima di noi ci avevano passato quelli che avevano vissuto la controcultura. Negli anni ’70 si erano autoprodotti, autodistribuiti, il messaggio che passa è che devi avere successo. L’unico metro di giudizio è quanti dischi hai venduto, se hai fatto uno stadio o meno, se vai o meno in televisione, se non ci vai non esisti. Uno dei motivi per cui ho voluto fare questo volume è per dimostrare che esisto, questo sistema porta i ragazzi a ritenere che se non fanno uno stadio non contano niente e quindi sono spinti ad accettare dei compromessi. Noi ci portavamo in giro i dischi, ce li vendevamo tra di noi, aprivamo i club per suonare. Se questa nuova generazione vuole suonare faccia il proprio percorso a costo di avere 5 spettatori a sera ed aprire i propri club, anche se illegali.
 
Per l’evento del 30 aprile prevedete di avere ospiti?
No! Non ci saranno né ospiti né pubblico perché ci disturbano (tante risate). No dai, ci saranno musicisti passati per gli After, poi altri ospiti di cui ancora non sveliamo i nomi però.
 
MAURIZIO DONINI