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UZEDA – live @ Palermo Suona MOB 23-10-2015

UZEDA – live @ Palermo Suona MOB 23-10-2015

Quando si parla di un concerto degli Uzeda, non si può pensare di non usare la parola “evento”. La band catanese, anomalia delle anomalie, ha attraversato indenne quasi quattro decenni di attività per arrivare oggi a presentare uno dei live più significativi per il rock italico, tutto senza dare la minima sensazione di suonare “tanto per”, tutt’altro: di farlo perché si hanno ancora cose da dire, da esprimere, da portare alla gente come fossero un dono prezioso. E ciò a cui abbiamo assistito, prezioso, preziosissimo, lo è stato davvero e la band, in questo senso, mi ha stupito una volta di più. Gli Uzeda sono una cosa viva, indecifrabile se non alla luce di un codice fatto di passione feroce per ciò che si fa. In questi anni il gruppo ha continuato il lavoro con la tenacia e la passione delle formiche, ostinatamente ancorati ad un vecchio modo di fare le cose, romantico ed incontaminato, lontano da logiche promozionali insensate. Forse per questo nello scorrere i nomi dei grandi Festival estivi, compresi quelli italiani, mi ritrovo sempre a constatare con amarezza la loro assenza. Gli Uzeda, non per diritto di censo, ma perché rimangono ancora uno dei migliori live set italiani meriterebbero certe vetrine! Questa volta sono ospiti del MOB (via Raffaello 2, Palermo), più che un locale una vera e propria sala concerti, piccola quanto si vuole, ma stra-funzionale e comoda per consentire un’attività live degna di questo nome. Impianto di buon livello, tecnici all’altezza, bar fornitissimo fanno di questo posto uno dei riferimenti assoluti per chi vuole fare musica in città.

Si comincia con “This Heat”. L’ostinato di basso toglie, sin dalle prime note, il senso alle variabili spazio-temporali, proiettando il pubblico avanti di 5 metri fisicamente e chissà quanti anni luce metaforicamente. Il suono di Raffaele Gulisano è pieno di armoniche, si sente “tanta corda” nel settaggio eppure è un suono sempre controllato. Incede col suo giro con i toni della regalità, mentre le chitarre di Agostino Tilotta cercano dal 2006 (anno di uscita di “Stella”, album da cui è tratto il pezzo) di fargli lo sgambetto, tessendo un intreccio di note fitto e sfuggente da riportarmi alla mente il duro lavoro di Larry LaLonde dei Primus quando è costretto ad aggirare la totemica ritmica di Les Claypool. Ma il bordone di Gulisano va avanti per la sua strada, non inciampa in niente e permette a Davide Oliveri di forgiare la sua personalissima katana con colpi di maglio assestati con regolarità metronomica e a Giovanna Cacciola (sublime vocalist) di interpretare il brano con la sempre compunta intensità. Alla fine, come sarà per tutti i brani, l’applauso parte sentito, scrosciante. L’applauso convinto di chi ha goduto e ringrazia la propria divinità offrendo in sacrificio l’ennesima sigaretta.
La seconda traccia è Gold. Il tempo è serrato, c’è poco tempo per tutto. Il Bianconiglio fa la sua comparsa ed orologio alla mano ci invita tutti ad accellerare. Ancora è il basso a reggere tutto. E gli altri ad inserirsi a turno. Giovanna armonizza il suo mantra: “Gold is My Honour, Gold is My Fate, Gold is My Bed”… l’Alice che non sono altro, si è persa di nuovo, ormai è chiaro come il sole!!! L’infilata acida di Montalbano e Red in stretta successione approda nel porto mica tanto sicuro di una concitatissima Sleep Deeper, una traccia che dal 1995 (anno di uscita dell’Ep “4”) ha cambiato il mio personalissimo modo di guardare alla musica aprendo al pollice (dito che usa il bassista per marcare il tempo) nuove e fino ad allora poco esplorate possibilità soniche. Ancora tantissimo Tilotta, ad ululare come un lupo rabbioso su un drumming “zoppo” e superfascinoso. Mai titolo fu più calzante. E’ infatti dal sonno più profondo che esce una pletora di mostri che azzanna alle caviglie il pubblico e lo costringe ad un dondolare mellifluo, che accompagna con il capo l’andirivieni di tutte le onde del mare dell’inconscio. Mi guardo intorno: bentornati anni ’90… mi eravate mancati!
Il fiume corre veloce e il “pescatore” si confonde. “Circle”, “Wise Man” e finalmente: “Steel Man”, forse il mio brano preferito del loro repertorio. Tratto dal loro quarto disco “Different Sections Wires” (1998), si distingue per la ritmica “harveyana” (anche se sarebbe più giusto dire “ellisiana”), fatta di tanti moduli giustapposti con contrapposizioni di dinamica piano/forte da provocare vertigine. Il ritmo ancora serratissimo, la chitarra veloce. Ma la cosa che stasera, come ogni volta che ho ascoltato questo brano, mi rapisce è l’uso informale della voce. Non c’è una melodia. È tutto gridato come fosse un susseguirsi di slogan da corteo, più o meno lunghi a seconda della metrica che si sta inseguendo contestualmente. Inconsueto è anche l’uso della batteria. Dove ci dovrebbe essere la cassa c’è il rullante e il contrario. E poi l’arpeggio di chitarra… tutto troppo ben fatto per non crearmi una Sindrome di Stendhal in piena Palermo. Di qui in avanti, faccio fatica a parlare del concerto. Agostino ci invita ad avanzare ulteriormente e mi ritrovo, come più o meno succedeva quindici anni fa, sottopalco, mondato dal ruolo di “inviato” per godermi con leggerezza di pensiero tutta la bellezza delle successive “Time below zelo”, “Stomps” (bellissima esecuzione), “Deep Blue Sea”, “Nothing but the stars”. Poi il cervello si pianta per la duemilionesima volta sul surrealismo buffo di quel titolo: “Camillo”. Lo sferruzzare di chitarre è all’apice della catena evolutiva di genere. Ancora echi “harveyani” accostano, come un motorino pronto allo scippo, il cantato di Giovanna Cacciola: “It was almost done and I worked out, and they were staring at me…” la quale, nel frattempo, è entrata in una sua personalissima trance dove pare esistere solo lei ed un oscuro idolo che prega indefessamente.
Tilotta e Gulisano, epigoni del teatro greco, si trasformano in due maschere che distorcono il proprio sorriso e la propria smorfia di dolore, semplificazione di tutto quello che si può incontrare su un palco, oggi come 2500 anni fa.
Dei quattro, solo Davide rimane a “terra”, logico, matematico, tecnico… è quello della band che guida la macchina del tempo, è quello che pilota la navicella, e senza di lui, nessuno potrebbe tornare indietro dalla propria personalissima estasi. Il concerto si chiude con “Steam, rain and other stuff”, una sorta di dono votivo al Vulcano che domina la città di Catania. Proprio come fosse un inno devozionale, parte un vocalizzo che accompagna la massa sonora, la quale, compatta come lava, sommerge le ultime riserve di un pubblico ormai prostrato dalla grandezza dello spettacolo a cui stanno assistendo e, forse forse, da qualche bicchiere di troppo. Ci sta!
Sul finale campeggia la profonda anima punk della band, Raffaele come un personaggio di Platoon, con tanto di fascia si arrocca dietro il suo quattro corde e comincia a mitragliare tutto il mitragliabile. Agostino deforma i suoi polacchini all’inglese puntandoli come fosse su un palco londinese a metà degli anni 70, a gambe aperte rimane a metà tra Sid Vicious ed un arciere siriano del V secolo a.C.. Il tutto è talmente profondamente sentito da indurmi un pensiero accorato: strappiamo tutti la carta d’identità, quello che c’è  scritto alla voce anno di nascita da oggi ha perso qualsiasi significato, siate quello che volete essere e volate sul bis di questa meravigliosa band su una “Stella” qualsiasi, è il tempo di costruire una nuova concezione dell’universo, questa cosa curva, dentro cui si può cadere in qualsiasi momento, soprattutto attraversando un’antica porta di Catania, Porta Uzeda.

MASSIMILIANO AMOROSO
Photoset by AZZURRA DE LUCA

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