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Robert Plant and the Sensational Space Shifters – Live @ Civic Hall, Wolverhampton ( …

Robert Plant and the Sensational Space Shifters – Live @ Civic Hall, Wolverhampton ( …

Robert Plant lo scrisse in “Kashmir” che è un viaggiatore al di là dello spazio e del tempo :  “ho viaggiato oltre lo spazio ed il tempo per essere dove sono stato” . In tour in Inghilterra con la sua band Sensational Space Shifters lo scorso autunno, come preludio a un successivo tour mondiale, ha messo in pratica questo famoso verso che, consapevolmente o meno, si è rivelato oltre che un brano leggendario, una professione di intenti musicali e di vita.

A Wolverhampton, alla Civic Hall poco distante dal suo luogo natale in cui si sente praticamente a casa, ha portato sul palco un concerto che è un happening, quasi una performance d’artista  più che un semplice live musicale .

Stilisticamente, la presentazione di “Carry Fire”, frammista a pezzi del suo passato con la band Led Zeppelin ma anche ad alcuni brani della sua più che trentennale carriera solista, è un ritorno alle radici che ama, con blues e folk superbi ma anche ondate di rock psichedelico e elettronico a coronare lo slittamento spazio temporale continuo.
L’altro concetto chiaro, sul palco, è che preferisce il suo “ramble on” a un tour di reunion per il quale ha già speso abbastanza parole : dopo una trionfale notte alla O2 di Londra in tributo ad Ahmet Ertegun nel 2007, in cui i Black Dog han dimostrato che il rock graffiante c’è ancora tutto ed è ancora capace di creare brividi inattesi con versioni live inedite (For Your Life, contro la cocaina ), per Plant la questione è passata. Bonzo è morto, il tempo è andato, lui vuole andare avanti, con il passato come valore ma non come obiettivo. “Non sono un valium per gente di mezza età”: il resto, sarebbe per lui una resa al mercato delle multinazionali che spremono i talenti sopravvissuti per tonnellate di dollari.
Più che snobismo, è regale dignità di non voler svendere l’arte nel circo dei tour di revival. Rambling on, appunto .

Il palco si apre su uno sfondo che evoca il tamburo piumato in copertina al nuovo disco, e una musica ambient e ricca di percussioni, New world, introduce la serata , dal sapore fresco, immediato. Il folk di May Queen (chiaro occhiolino testuale a Stairway to heaven) innalza i toni come lo fa, a metà concerto, la sciamanica Carry Fire, che dal vivo è arricchita da un duetto favoloso fra Justin Adams alla chitarra e il talentuoso Seth Lakeman al violino, in un incalzante ritmo rock-asiatico, che porta ieraticamente dentro l’animo dell’ispirazione artistica di Plant. Sullo sfondo, una processione di visi medievaleggianti scelti da Justin, che oltre ad un chitarrista dotatissimo è anche uno storico dell’arte.
L’eccitazione del pubblico con Carry Fire rasenta quella di un’audience led zeppeliniana, a dar conferma a Plant che è sulla strada giusta.

Una versione velocissima e ritmica di Gallows Pole e una dolce Going to California si contendono l’omaggio alla gloria passata con una versione intima, sussurrata, malinconica quanto potente (grazie alla chitarra e al flamenco di Skin Tyson) di Babe I’m gonna leave you, in cui il grido giovanile cede il passo, diventando uno dei momenti climax della notte, a un’insinuazione dolente e intensa, degna di  maturità vocale  e artistica .
Fra la versione country-psichedelica di Bluebirds Over The Mountain, nell’album cantata in duetto con Chrissie Hynde, la ballad All the kings horses che rasserena gli animi e il  finale con l’esplosione di Whole lotta love rivisitata, la notte si chiude , fra luci piene di chiaroscuri violacei, verdi e dorati, molto teatrali, segnale chiaro di una maggiore intimità musicale rispetto al magnifico schiaffo rock etnico  degli anni di Mighty Rearrenger o al country di Band of Joy.

Se la voce del ragazzo di Kidderminster rimane la stessa, le canzoni, pur cambiando, rivelano la stessa essenza che lo portò a brillare come dio dorato negli anni Settanta : graffiante, multietnica,  intimistica e regale .

Dal silenzio contemplativo del pubblico in That’s the way e Please read the letter (da Raising Sand con Alison Krauss), attraverso una versione sensazionale di What is and what should never be si arriva ancora al nuovo con Bones of Saints, brano che cattura per il ritmo incalzante e il testo forte.

Robert Plant si conferma ancora una volta  un ricercatore che dello spazio ama la mancanza di confini e del tempo  la possibilità di arrichirsi ed arricchire attraverso l’arte.
Carry Fire non è un titolo casuale . Il valore musicale della notte alla Civic Hall è stato assolutamente incendiario. Portare fuoco è scalfire l’animo e le orecchie del pubblico per lasciare tracce di un talento che non accenna a cedere il passo né ad abbandonare il gusto per nuove scoperte, pur restando fortemente se stesso: il cantante dalla voce cristallina e inconfondibile, ancora in grado di dare brividi lungo la schiena quando tocca le sue famose note alte e di darne altrettanti quando si inabissa in sfumature che sono autentiche, meravigliose  insinuazioni.
 
Roberta Guiducci