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SARAH STRIDE – Intervista alla cantante

SARAH STRIDE – Intervista alla cantante

Oggi su Tuttorock ospitiamo Sarah Stride, artista milanese che ha pubblicato il 7 aprile il suo EP Schianto. Conosciamola meglio…
 
 
Ciao Sarah e benvenuta su Tuttorock! Presentati ai nostri lettori…
Ciao a tutti e grazie per l’ospitalità! Sono Sarah Demagistri e Stride è un quasi-acronimo tra la fine e dall’inizio del mio cognome. La voce del verbo stridere sta ad indicare una non confortevole propensione per i contrasti, per la necessità di indagare territori poco definiti, dove mondi apparentemente diversi e inconciliabili trovano una via per contaminarsi e coesistere creando luoghi nuovi che appunto possono “stridere” con le rigide classificazioni alle quali siamo abituati. Faccio tantissimi rituali, sono ipocondriaca ma sto guarendo.
 
Quando hai iniziato a cantare e a comporre musica?
Genealogicamente, da generazioni, la musica, soprattutto quella classica, è stata una protagonista nella mia famiglia e cantare, in casa mia, è sempre stata la forma di comunicazione più autentica, qualcosa di assolutamente naturale come mangiare alla stessa tavola. Ricordo che fin da piccolissima avevo la necessità di cantare continuamente, tanto che, per non stressare l’anima a tutti, mi mettevo due cuscini intorno alla faccia per poterlo fare letteralmente a squarciagola. La necessità di comporre è invece arrivata un po’ più tardi, in adolescenza, quando ha iniziato ad essermi chiaro che la musica non fosse solo uno sfogo, un divertimento ma qualcosa di indissolubilmente intrecciato a me e alla quale non avrei potuto sottrarmi. La mia cura, la mia possibilità di esistere in una diversità che finalmente trovava il modo di potersi manifestare fuori di sé.
 
Ho ascoltato il tuo EP e mi ha incuriosito fin dal titolo. Complimenti! Parlaci di lui, di Schianto.
Schianto è la prima costola di un album intero che verrà presentato a fine estate. Il mio secondo album come cantautrice scritto e prodotto insieme a Simona Angioni per le liriche e Kole Laca per la musica e la produzione artistica. Un lavoro molto diverso rispetto ai precedenti sia per quanto riguarda le tematiche affrontate nei testi, che per la ricerca di un suono più violento e minimale. Da una dimensione più intima e personale abbiamo sentito il bisogno di rivolgerci a temi più universali, che passassero dalla mitologia alla pericolosa concretezza dei nostri tempi, tenendo come protagonista assoluto l’uomo, nella propria bellezza e fragilità, nelle proprie tensioni al volo e nei propri schianti, appunto. Di conseguenza la produzione artistica, affidata ad un’elettronica più cupa e stratificata e dove la ritmica regna sovrana,  non ha fatto altro che interpretare con un altro mezzo, le stesse tematiche. Si sa, tra disturbati ci si intende…
 
Tu provieni dall’industrial rock ma lo intrecci col sound italiano e questo si sente forte e chiaro nel tuo EP. Come si coniugano questi generi?
In realtà, come si può riscontrare nei miei due album precedenti prodotti da Alberto Turra, la matrice stilistica dalla quale provengo maggiormente è quella dell’alt-rock, i cenni industrial sono prerogativa della produzione di questo ultimo lavoro affidato all’elettronica di Kole Laca. In entrambi i casi credo che il sound percepito come “italiano” risieda principalmente nell’attenzione alla melodia, ritornelli di grande respiro che possono rimandare a brani storici degli anni sessanta/settanta e poi, su tutto, l’importanza del timbro e dell’intenzione vocale piuttosto che di un certo virtuosismo.  In ogni brano ho sempre dato la massima importanza al testo ma spesso la necessità cantautorale del racconto (molte parole, periodi lunghi) diventava un grosso ostacolo per le possibilità melodiche. Un giorno lessi un’intervista al compositore Burt Bacharach il quale spiegava che la sua modalità di scrittura seguiva un flusso orizzontale. Questo modo di visualizzare la scrittura, non sulla fissità di un giro di accordi ai quali sottoporre melodie e sillabe ma al contrario partendo da una melodia libera sulla quale costruire la canzone, in modo orizzontale, mi ha dato la possibilità di poter mantenere l’importanza del testo e della melodia senza che nessuno dei due dovesse essere sacrificato in favore dell’altro. Detto questo, credo nella potenza del sincretismo e della sperimentazione, soprattutto quando i poli in questione sembrano praticamente inconciliabili. Nick Cave parlando di scrittura sottolineava l’importanza del “contrappunto”, dell’immissione di qualcosa di assolutamente imprevedibile all’interno della nostra “confort zone”. I generi si coniugano attraverso la profonda conoscenza di essi seguita dalla capacità di varcare un limite e trasformarli in qualcosa di diverso.

Nella produzione troviamo Kole Laca de Il Teatro degli Orrori e Manuele Fusaroli. Com’è stato lavorare con loro?
Ricordo perfettamente il momento in cui Kole mi ha spedito il primo brano che gli avevo mandato e sul quale aveva lavorato, credo di non aver mai ascoltato così tante volte una canzone di fila in tutta la mia vita! “Il figlio di Giove” che è anche stato il primo singolo ad uscire, è stato il brano che ha sancito in modo inequivocabile la nostra alleanza e comunione di intenti e questo senza dirci quasi nulla prima. Lavorare con lui, che ha seguito la produzione di questo album in tutte le sue fasi e con Manuele in fase di registrazione, mix e mastering è stato veramente lavorare in uno stato di grazia. Oltre che ad essere entrambi musicisti estremamente creativi e preparati, così come è accaduto con Simona per i testi, abbiamo tutti lavorato senza che nessun “ego” volesse prevaricare l’altro, semplicemente a servizio del mondo e dei brani che si stavano creando. E’ stato un percorso lungo e per certi versi tortuoso poiché abbiamo cercato di raccontare solo quello che per noi era davvero necessario e di mantenere lucido l’intento di produrre un album che ci rispecchiasse profondamente e senza compromessi.
 
Grazie Sarah! E in bocca al lupo per tutto!
Grazie ancora a voi per l’attenzione.
 
MONICA ATZEI
 
 
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